giovedì 18 settembre 2008

Al parco

Aver preso un cane era stata davvero una bella idea.

Gli riempiva il divano di peli, pisciava quasi ovunque, alle 23, sole (si fa per dire) pioggia o neve bisognava portarlo a fare il giretto prima della notte, il giornale, al massimo lo ciucciava nel tragitto di ritorno dal giornalaio, e non aveva più un paio di ciabatte complete, ma solo avanzi di massacri notturni, anche due o tre destre, e camminando per casa sembrava sempre indeciso sulla direzione da prendere, visto che le sue ciabatte non avevano mai le punte concordi.

Però, a forza di corrergli dietro per impedirgli di addentare qualsiasi uomo in divisa, nonostante la stazza da mezzasega, visto che si trattava di un barboncino, era anche un po' dimagrito, e soprattutto si era reso conto del mondo dei padroni dei cani, di cui non era a conoscenza.

Si trovavano al parco, con i loro protetti, lanciavano stupidi legni che col cavolo che i quadrupedi riportavano indietro, parlavano di croccantini, di pulci, di veterinari da osannare o da gassare per errori madornali. Facevano amicizia, dividevano risse e qualcuno si era anche innamorato, dopo aver accuratamente verificato la compatibilità fra i loro abbaianti amici.

Aveva un barboncino, nero, di quegli idioti barboncini che abbaiano quando non ce ne sarebbe bisogno, ovvero sempre, che saltano sulle corte gambette rigide e che hanno degli occhini neri, tondi, che sembrano di vetro da come sono inespressivi.

Erano giorni che la osservava. Alta, mora, capelli ricci, da donna piena di personalità, sorriso luminoso, fisico scattante, spesso in tuta e scarpe da tennis, probabilmente arrivava al parco a fare due chiacchiere dopo aver fatto footing, con i capelli tirati indietro, a scoprire un volto perfetto.

Ma non osava avvicinarsi troppo, il suo cane era un mastino napoletano che lei chiamava Gennarì, e a parte i litri di bava che depositava su panchine, ginocchia di quelli seduti accanto a lei e i latrati gutturali che emetteva, temeva di non piacerle, troppo bella e sicura di sé.

Da un certo giorno però cominciò a notare che nonostante ridesse e scherzasse con il solito gruppetto, ogni tanto gli lanciava delle occhiate che gli scioglievano il sangue (il miracolo di Gennarì?) e glielo facevano affluire altrove, e una sera osò sedersi vicino a lei.

Parlarono, e parlarono, e si fece buio, e gli altri del gruppo cominciarono a salutare e ad andare via, come comprimari di quella commedia che stava per raggiungere il momento culminante, in cui lui e lei capiscono che lei e lui erano quelli che stavano aspettando, da una vita.

La luna era alta nel cielo, il cielo, nonostante le luci della città, stellato, e preso da un coraggio che non avrebbe mai pensato di avere, la strinse fra le braccia e la baciò, appassionatamente, con trasporto, con il desiderio che non finisse mai.

Si salutarono tenendosi le punte delle dita e sussurrandosi - a domani -, e tirando ognuno il guinzaglio del proprio tesoro, si avviarono verso casa.

Gli pareva di volare, il guinzaglio gli pareva leggero, e lieve gli sembrava anche il passo del suo barboncino, silenzioso nella sera.

Qualcuno, sul viale, guardò quell'uomo dall'aria innamorata che camminava lento, con un guinzaglio vuoto in mano, mentre i vigili stilarono una denuncia contro ignoti e le associazioni ambientaliste chiesero misure durissime non appena avessero trovato l'assassino del povero barboncino , che giaceva con la testa staccata davanti ad una panchina del parco.

Lei entrò in casa felice e piena di romantici sospiri, e quasi senza pensarci pulì la bocca al suo Gennarì, che oltre alla bava gocciolava anche un po' di sangue.
Amorone mio, gli disse, adesso mica sarai geloso di me perché mi sono innamorata ? E soprattutto, mio bel partenopeo, che non ti salti in mente di dare noia al barboncino del mio amore, eh !

mercoledì 17 settembre 2008

Afrorismi V -ultima parte-


Sotto l’occhio indagatore dell’eunuco De Pretis si tesse l’ordito di questa notte che segnò in maniera indelebile la memoria del Maestro Pin-Nao e del suo allievo Pi-Nin.

In cerca di un poco di intimità Sherazade li accompagnò entrambi dietro un piccolo paravento e con voce carezzevole e dolcissima, disse: “Glande Maestro, le vostre doti sono giunte fino a questo Harem inviolabile nel palazzo delle Mille e una Notte. In questa tarda serata io e le mie compagne non riusciamo a dormire, intratteneteci ve ne prego con un gioco”.

Pin-Nao la guardò negli occhi e per un attimo si perse nel loro blu profondo come il mar della Cina prima della tempesta. Poi parlò come suo costume risoluto: “Mi è impossibile esprimermi liberamente con il perfido eunuco che ci sorveglia, o diletta principessa”.
Dopo una pausa sapiente continuò: “Se volete posso eliminare l’incomodo e dar vita al giuoco, aspetto un vostro cenno, mia Dea fatata”.
Sherazade batte le mani per la gioia: "Volesse il destino che fossimo tutte liberate per una notte dal sordido eunuco. Egli ci scruta anche nell’intimità dei bagni, pensate o saggio, quando siamo tutte nude…Avete il mio permesso, bel cavaliere dagli occhi a mandorla”

Ratto Pin-Nao si voltò verso il nipote e parlò: “Pi-Nin, hai con te le freccette e la cerbottana aborigena che ti diedi prima di partire?”
“Certo Maestro”, disse Pi-Nin esibendosi in un salto mortale assolutamente inutile, ma di grande pregnanza scenica.
“Le porto meco sempre, anche durante l’evacuazione quotidiana mio signore. La canna mi sostiene e le freccette avvelenate mi fanno la giusta paura che favorisce la mia regolarità”, conculuse Pi-Nin inchinandosi.

“Umpf!”, Brontolò il sommo, “Colpisci l’eunuco con un dardo, mentre lo distraggo. Mi raccomando! Faccio affidamento sulla tua mira impareggiabile”.
“Yawoll!” disse Pi-Nin che masticava un poco di tedesco.

Appostatosi a distanza di 20 passi, lo scimmiesco allievo si inerpicò su una colonna lignea fin quasi al soffitto, e da quella posizione attese il cenno convenuto per scagliare il proietto soporifero, imbevuto di curaro cinese misto alla polvere del temibile fungo Fugurai che obnubilava la memoria.

Con la sua abituale calma Pin-Nao si avvicinò al grasso eunuco e lo distrasse con un'ardita conversazione ricca di aneddoti relativa alla migrazione delle cavallette.
Nel contempo, non visto, si accarezzò la folta chioma come segnale per Pi-Nin, ma quell'anima bonsai come suo solito era distratto. Dalla sua posizione sopraelevata scrutava i “decolté” delle procaci donzelle dell’harem invece di tener d’occhio Pin-Nao che dovette ripetere molte volte il gesto, suscitando il sospetto nel guardiano che l’apostrofò malevolo: “Oh grullo! O’che tu c’hai li pitocchi?”.

Proprio in quel momento Pi-Nin soffio nella cerbottana e scagliò rapido come un rutto di Drago il proietto avvelenato. Forse a causa dell’erezione che lo distanziava ritmicamente dalla colonna il tapino sbagliò bersaglio.
La freccia si conficcò nella fronte del Maestro che, solitamente imperturbabile, si abbandonò in quel frangente ad ogni genere di maledizione in tutte le lingue parlate e in quelle morte all'indirizzo del ritardato allievo.
Poi cominciò a sbadigliare.
Il Sommo aveva solo pochi secondi per bere l’antidoto, constante in una miscela segreta di salsa di soya, ginseng e campari soda.
Lo tracannò lesto dalla fiaschetta che portava in tasca e si riprese dal mancamento dopo qualche attimo.
Al secondo tentativo Pi-Nin colpì invece un’odalisca che passava vicino ai due conversatori con un vassoio di frutta secca, la quale stramazzo a terra come un leopardo narcolessico.
De Pretis insospettendosi sempre di più cominciava a dar segni di nervosismo. Avrebbe chiamato certamente le guardie se al terzo tentativo la freccia di Pi-Nin non fosse giunta finalmente a segno.
E così fu. L’eunuco, dopo pochi istanti, cadde a terra emanando una flatulenza da ippopotamo che modificò il microclima circostante per circa otto minuti.

Sceso dalla colonna con un salto Pi-Nin si gettò a terra ai piedi del suo ieratico Maestro.
“Chiedo scusa, divino, ma la natura mi ha impedito di giunger subito a segno”.
“Non preoccuparti, figliolo” proferì benevolo il Saggio con voce rassicurante e lo aiutò a rialzarsi.
“Grazie!” disse l’allievo incredulo e così facendo abbassò la guardia.
Si avvide troppo tardi della terribile botta elargita dal grande Monaco. Il colpo, detto “il pugno tonante della scrofa grufolante”, lo raggiunse al petto rompendogli almeno tre chackra.
Rianimatosi dopo una secchiata di acqua gelida il nipote poté comunque partecipare al gioco con i rimanenti chackra ancora funzionanti, specie i due più importanti detti “I kiwi del paradiso”.

“Il più è fatto ora comincia il divertimento”, affermò sfregandosi le mani Pin-Nao e con continuità spiegò le regole del gioco.
“Questo gioco di origine cinese si chiama: il salto della quaglia. Le ragazze si spoglino e si mettano carponi, io e Pi-Nin vi salteremo sopra, se si sbaglia il salto infilzando la compagna di gioco si paga pegno”, così dicendo Pin-Nao si liberò in un attimo dei vestiti lasciando gli astanti stupificati alla vista del drago dall’occhio solo già perfettamente totemizzato.
“Evviva” dissero in coro le giovani liberandosi a loro volta dei veli e ponendosi nella posizione prescritta detta anche: alla traditora.

Fu un’apoteosi.
Pin-Nao salmodiava un mantra segreto: “Son di Salò sul più bello me ne vò”, e così recitando saltava e montava come un bufalo cafro infoiato.
Pi-Nin dal canto suo, dopo un po’, ebbe i primi segni di cedimento e riuscì a fare quello che poteva per star dietro al maestro con i suoi due chakra ormai sgonfi.
Anche Sherazade partecipò giuliva approfittando contemporaneamente del vigoroso Monaco e del molliccio assistente, quest'ultimo che canticchiava nel mentre: “Con la lingua e con il dito, non son ancor finito”.

Giunta l’alba i due si ritirarono in buon ordine nella loro stanza.
De Pretis invece si svegliò con un tremendo mal di testa, dimentico dell’accaduto, ma con un fastidioso bruciore alle terga.

Prima di addormentarsi Pin-Nao si rivolse al nipote: “Pi-Nin, l’eunuco potevi evitarlo”.
“Scusi maestro”, disse il protoumano, “Nella foga del gioco ho fatto pagar pegno anche al guardiano…”
Il buffetto lezioso di Pin-Nao mise fine al rimbrotto: “Ora dormi, ominide, e non peccare più. Domani si torna a casa, appresta i bagagli di buona ora e svegliami alla mezza”.
“Oui, Maitré!” disse Pi-Nin che masticava anche un po’ di francese.
Nella stanza calò come un sipario pesante un sonno soddisfatto.

Il destino aveva seguito il suo svolgersi così come è scritto nel Tao Te King: “Compiuto il compito ritirarsi, questa è la Via del Cielo”.
Cazzo!

Tratto da: I viaggi di Pin-Nao e suo nipote- IV sec. A.C.

martedì 16 settembre 2008

DUBBI AMLETICI

Dottoressa: Ma lattulosio e olio di vasellina
sono efficaci x la stirtichezza?
Ma si rispose l'avvenente dottoressa
con voce vagamente annoiata
E per la stipirezza vanno pure bene????????
Ma no per quella l'ideale
son le supposte alla nitroglicerina ,
prescrisse lei con voce languida....

Tratto dai Dialoghi Medico&paziente
autore C&C

Il potere della parola

Allora dottore, cosa pensa delle ultime analisi ?

- Mio caro signore, le dirò, le si prospettano, presto, stormi di volatili a PH basso.


L'uomo uscì rasserenato, ed essendo privo di una cultura di base, non fu nemmeno sfiorato dal fatto che potesse trattarsi di "cazzi acidi".

un amore non consumato

Il giraffo e la cangura si innamorarono perdutamente, ma nonostante i ripetuti tentativi di copula, ogni volta si risolveva tutto in un fallimento, ed ogni volta era ancora più umiliante.

La cosa più coinvolgente che riuscirono a fare fu quando lui le leccò il dentro del marsupio.

dita a martello

Caro Signore,
si accomodi, che le spiego quali possano essere i rimedi per le dita a martello, anche chirurgici, disse l'ortopedico.

Senta, disse l'uomo, si potrebbe prima cominciare a parlare del fatto che ho il pisello secco come un chiodo, che mi da molto più disturbi ?

domenica 14 settembre 2008

Pitiuse mon amour


Scese con passo agile dall'aereo appena atterrato sulla pista lucida di pioggia leggera.

Una volta giunto a casa venne però soverchiato dal rumore del silenzio.
La sua mangifica dimora, tutta tempestata di stanze etniche in stile mediorientale, lo guardava in attesa di un cenno, ma lui non riusciva a muoversi.

Pareva una statua Maori.

Pensoso e assente nel medesimo tempo venne colto da una breve poesia melanconica che lo raggiunse superando la scogliera della sua abbronzatura.

Avvenne proprio mentre guardava dall'ampia finestra del suo salone, ora spoglio di risate, con le lenzuola bianche come sudari adagiate sui mobili antichi.

La città brulincante e grigia faceva da sfondo alla sua vista, ma negli occhi ancora la sabbia e il mare.
Il ricordo sorse languido.
Eccolo con la memoria in quel "cerenghito" sulla spiaggia, dove adagiato su cuscini di cotone, aveva sorseggiato una "sangria blanca" dal gusto squisito.
La lenta risacca insieme al caldo gli sussurava: "Resta per sempre".
Una stetta gli serrò il cuore.
Come Ulisse anch'egli aveva scelto di legarsi, non certo all'albero maestro della sua nave, ma alla propria quotidianità per resistere al richiamo delle sirene dell'isola.

Solo il pensiero del lunedì rendeva migliore questa domenica triste.